Benedetto XVI richiama le opere caritative cattoliche ad essere veramente “caritative” e “cattoliche”
Mentre la stampa fremeva per lo sbarco di papa Benedetto su Twitter, poco si è parlato dell’importante Motu Proprio “Intima Ecclesiae Natura”, pubblicato dal pontefice il primo dicembre scorso. La caratteristica di questo documento è di non essere stato proposto da alcun organismo della Curia Romana, ma di essere stato scritto di sua spontanea volontà dal Papa. Benedetto XVI rimarca, oltre alla preoccupazione per la cura dell’anima e non solo del corpo, la necessità della trasparenza delle operazioni delle organizzazioni caritative e i nuovi compiti dei vescovi per garantire la cattolicità di questi enti.
NASCE TUTTO DA CRISTO. Si legge innanzi tutto dell’importanza di «tenere presente che l’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo». Per questa ragione, le opere caritative devono evitare il rischio di dissolvere l’attività caritativa «nella comune organizzazione assistenziale, divenendone una semplice variante». E soprattutto devono garantire che la loro gestione «sia realizzata in accordo con le esigenze dell’insegnamento della Chiesa». Le organizzazioni caritative della Chiesa sono «tenute a seguire nella propria attività i princìpi cattolici e non possono accettare impegni che in qualche misura possano condizionare l’osservanza dei suddetti princìpi».
GLI SCANDALI. In effetti, fino ad ora non esisteva uno strumento (nemmeno il Codice di diritto canonico) per “regolare” la carità. E se si pensa ad alcuni problemi seguiti ai servizi e alla formazione di certi enti, sia religiosi sia laici, contrari al Magistero della Chiesa, se ne comprende la necessità. Nel Nord America, ad esempio, il Papa ha commissariato alcuni ordini che fornivano servizi quali la contraccezione e sostenevano l’aborto. Lo stesso è accaduto in alcuni paesi europei. Mentre altre organizzazioni, che si dicevano cattoliche, hanno utilizzato il nome della Chiesa per gestire fondi in maniera non sempre trasparente.
IL FARE DI DIO. Per questo, d’ora in poi, «un organismo caritativo può usare la denominazione di “cattolico” solo con il consenso scritto dell’autorità competente». E i vescovi saranno i responsabili di quanto accade al loro interno, evitando «il moltiplicarsi delle iniziative di servizio di carità a detrimento dell’operatività e all’efficacia rispetto ai fini che si propongono». Così Benedetto XVI ha voluto riordinare la carità a partire dalla convinzione che la Chiesa non si poggia sul fare umano ma su quello di Dio, come ha già ricordato nel recente documento Porta Fidei. E come aveva già chiarito durante l’Udienza generale del 26 aprile 2012: mentre raccomandava di non perdersi nell’«attivismo puro», esortava a ricomprendere che «la vera carità» non ha bisogno di «tante cose», ma «soprattutto dell’affetto del nostro cuore, della luce di Dio».
I VESCOVI. Perciò i vescovi non dovranno solo vigilare, ma fornire una «formazione del cuore che documenti una fede nell’opera di carità», provvedendo «alla loro formazione anche in ambito teologico e pastorale», addirittura «con specifici curricula» e «con adeguate offerte di vita spirituale». Infine, si chiede ai vescovi sobrietà, evitando «che gli organismi di carità che gli sono soggetti siano finanziati da enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa. Parimenti, per non dare scandalo ai fedeli, il Vescovo diocesano deve evitare che organismi caritativi accettino contributi per iniziative che, nella finalità o nei mezzi per raggiungerle, non corrispondano alla dottrina della Chiesa».
Così diceva don Orione: «Noi dobbiamo dunque chiedere a Dio non una scintilla di carità, ma una fornace di carità da infiammare noi e da rinnovellare il freddo e gelido mondo, con l’aiuto e per la grazia che ci darà il Signore. Avremo un grande rinnovamento cattolico, se avremo una grande carità.
Solo la Carità potrà ancora condurre a Dio i cuori e le popolazioni, e salvarle».